lunedì 12 febbraio 2018

Rosmini e la riforma della filosofia



Un lettore, che ha seguito la mia recente disputa con “Cesare Baronio”, è rimasto incuriosito dai riferimenti da me fatti a Rosmini, e mi chiede se sia possibile scrivere qualcosa su di lui. Lo faccio volentieri, precisando che non si tratta, ovviamente, di una trattazione scientifica, ma solo di alcuni cenni, che hanno come unico scopo quello di... suscitare una maggiore curiosità.

Per quanto riguarda la sua vita, si può utilmente consultare la scheda di Wikipedia. Qui basterà ricordare che Rosmini visse nella prima metà dell’Ottocento (nacque nel 1797 e morí nel 1855), l’epoca caratterizzata prima da Napoleone, poi dalla Restaurazione, quindi dai moti rivoluzionari e, in Italia, dal Risorgimento. Per la Chiesa non fu certo un periodo tranquillo: si pensi innanzi tutto all’invasione napoleonica dello Stato pontificio con l’arresto di Pio VI prima (1798-99) e di Pio VII poi (1809-14); si pensi inoltre alla Repubblica Romana del 1849; si pensi infine al processo di unificazione italiana, che avrebbe portato alla fine del potere temporale dei Papi nel 1870.

In Rosmini si potrebbe considerare il santo (è stato beatificato nel 2007), l’autore spirituale (è da raccomandare la lettura delle sue Massime di perfezione cristiana), il fondatore (diede origine all’Istituto della Carità e alle Suore della Provvidenza, conosciuti rispettivamente come Rosminiani e Rosminiane). A noi qui interessa soprattutto il filosofo e, se vogliamo, il riformatore (della filosofia, della società e della Chiesa). Rosmini si diede a quest’opera di riforma non di sua iniziativa, ma su mandato del Papa Pio VIII (Francesco Saverio Castiglioni), che, ricevendolo in udienza nel 1829, gli disse:
È volontà di Dio che ella attenda a scrivere libri: tale è la sua vocazione. Ella maneggia assai bene la logica, e la Chiesa al presente ha bisogno di scrittori che possano farsi temere. Per influire utilmente sugli uomini non rimane oggidí altro mezzo che quello di prenderli colla ragione, e per questa condurli alla religione. Si tenga certa, che ella potrà recare al prossimo assai maggior vantaggio occupandosi nello scrivere che non esercitando qualunque altra opera del sacro ministero.
Tale esplicita volontà pontificia fu confermata al Rosmini dal Papa Gregorio XVI, che già da Cardinale (Mauro Cappellari, O.S.B. Cam.) lo aveva incoraggiato nei suoi studi:
Continua dunque, diletto figlio, lo studio e prosegui a spendere le tue fatiche ad onore di Dio per l’utilità della Chiesa; in Cielo sarà copiosa la ricompensa per la tua opera (breve pontificio del 1832). 
Rosmini accolse tali inviti come un chiaro segnale della volontà di Dio su di lui:
Cosí fu determinata la direzione de’ miei studi successivi, e la riforma della filosofia divenne l’intento universale de’ lavori fin qui pubblicati o promessi (“Degli studi dell’autore”, n. 11: Introduzione alla filosofia, vol. II dell’ed. naz., Roma 1934, p. 21).
E interpretò tale riforma come l’esigenza di procedere a una nuova sintesi filosofica:
Quale spirito gentile può esserci, che vedendosi davanti tanti nobili veri, utilissimi e fertilissimi, quanti sono quelli, che purgati ed accertati dai sapienti, giacciono consegnati alle carte di cui ogni secolo a noi fé dono, non desideri e non chieda qualche grande sintesi, nella quale tutti quasi d’un solo sguardo si possano abbracciare, que’ veri, ordinati a bella unità, e nell’evidenza d’un solo supremo principio di nuova vita accresciuti? (ibid., n. 5: loc. cit., p. 21).
Mi sia permesso citare qui un passaggio dell’introduzione della mia tesi di laurea per illustrare come Rosmini realizzò tale intento:
Si trattava di trovare questo “solo supremo principio”, capace di ridar vita alla filosofia ormai esangue. Esso non poteva che essere cercato nella tradizione filosofica cristiana. Occorreva pertanto riallacciarsi alla filosofia perenne, che non era mai morta, ma che certo, dopo la Scolastica, si era per cosí dire assopita: occorreva ridestarla, riprendendo le mosse da colui che era stato il piú grande maestro della filosofia medievale, San Tommaso. Il Rosmini fu tra i primi nella Chiesa a riprendere fra mano le opere dell’Angelico. Ma lo studio di quel grande dottore non significava per il Rosmini semplicemente conoscere un autore del passato, per riproporlo tale e quale nei tempi moderni (ciò che poi farà la restaurazione del tomismo promossa da Leone XIII), esso significava piuttosto riprendere contatto con un pensiero vivo, che progressivamente si evolve, adattandosi alle varie epoche: come la filosofia cristiana, nata con Sant’Agostino, era stata capace di adeguarsi alle esigenze del Medio Evo con San Tommaso, cosí sarebbe stata capace di rispondere alle nuove esigenze del pensiero moderno.
In questa tradizione il Rosmini scoprí il “supremo principio” che avrebbe ridato vita alla filosofia. E lo trovò in quell’idea dell’essere, che, pur non essendo finora mai stata esplicitamente indicata dai filosofi precedenti, era tuttavia implicitamente contenuta nelle loro dottrine. Con ciò il Rosmini rimaneva fedele alla tradizione e allo stesso tempo la sviluppava, dimostrando cosí che la tradizione, appunto perché tale, è qualcosa di vivente che continuamente progredisce; ché altrimenti tradizione non sarebbe, ma solo monumento del passato. 
L’idea dell’essere fu il principio intorno a cui il Rosmini costruí il suo sistema: non una costruzione artificiosa, ma la riconnessione di ogni verità a quella prima verità; non si trattava di inventare un nuovo sistema, ma di scoprire la realtà delle cose; non era un ulteriore ritrovato del soggetto, ma l’umile riconoscimento dell’oggetto.
Fra le sue numerosissime opere (una vera e propria enciclopedia!), va menzionato soprattutto il Nuovo saggio sull’origine delle idee del 1830, che costituisce la base del sistema rosminiano. Se ne può trovare una sintesi nello Schizzo della moderna filosofia e del proprio sistema (che può essere facilmente rinvenuto in rete). Rosmini enumera le diverse teorie che sono state proposte nel corso dei secoli per spiegare l’origine delle idee, e le divide in due gruppi: quelle false per difetto (sensismo ed empirismo) e quelle false per eccesso (Platone, Leibnitz, Kant, Fichte). Schematizzando al massimo, potremmo dire che le teorie false per difetto sono quelle che sostengono che le idee derivano esclusivamente dall’esperienza; quelle false per eccesso sono quelle che ritengono che le idee siano innate. Alle une e alle altre Rosmini contrappone il proprio sistema, secondo il quale l’unica forma a priori è l’idea dell’essere, mentre tutte le altre idee sono acquisite; solo l’idea dell’essere è innata; l’esperienza fornisce la materia della conoscenza, la forma è data dall’idea dell’essere; l’idea dell’essere è un a priori oggettivo (a differenza dell’a priori soggettivo di Kant).

Il contributo apportato da Rosmini alla storia della filosofia potrebbe sembrare assai limitato e marginale (tanto che i manuali scolastici gli dedicano solo poche righe); la filosofia rosminiana potrebbe apparire come una delle tante teorie gnoseologiche per spiegare la conoscenza umana. In realtà, l’idea dell’essere costituisce il “principio supremo” intorno al quale viene realizzata una “grande sintesi”, che abbraccia tutti gli aspetti della realtà. Per fare un esempio, la morale acquista nel sistema rosminiano una dimensione completamente nuova. Il principio della moralità afferma: «Vuogli, o sia ama l’essere ovunque lo conosci, in quell’ordine che egli presenta alla tua intelligenza». Non si tratta di osservare una legge imposta all’uomo dall’esterno, ma di “volere l’essere” cosí come esso si manifesta alla nostra mente. Dalla restaurazione della filosofia sulla base dell’idea dell’essere dipende la ricostruzione della società, che era stata sovvertita nei suoi fondamenti dall’illuminismo settecentesco:
Dalla sovversione anzi dall’annientamento della Filosofia operato nel secolo scorso dagli autori del sensismo, guazzabuglio di negazioni e d’ignoranze, che sotto il nome assunto di filosofia invase tutta l’Europa con piú detrimento del vero sapere, che non vi avesse recato giammai alcuna invasione barbarica, derivò quella corruzione profonda della Morale, del Diritto, della Politica, della Medicina, della Letteratura, e piú o meno di tutte le altre discipline, della quale noi siamo testimoni e vittime» (“Degli studi dell’autore”, n. 10: loc. cit., p. 19).
Avendo posto al centro del proprio sistema l’idea innata di essere, Rosmini fu ingiustamente accusato di “ontologismo” (la teoria secondo la quale oggetto immediato della nostra conoscenza è Dio stesso). Ma, mentre tale accusa poteva essere rivolta a Malebranche (secondo cui vediamo le cose in Dio) e a Gioberti (per il quale oggetto immediato della conoscenza è l’Essere reale), Rosmini distingue accuratamente fra essere ideale (l’idea dell’essere, che è solo un essere possibile), essere reale (Dio e le creature) ed essere morale (dover essere).

Certamente, con la sua teoria, Rosmini recupera molto di Platone e di Agostino; ma ciò non significa che egli si contrapponga ad Aristotele e Tommaso, spesso interpretati in una chiave “empirista”, che non è la loro. Neppure per loro è sufficiente la semplice esperienza per spiegare la conoscenza umana: l’esperienza, senza un elemento innato che la ordini, rimarrebbe un puro “fascio di percezioni” (Hume). Ebbene, Rosmini, riallacciandosi alla tradizione filosofica cristiana, mette in luce questo a priori che, combinandosi con l’esperienza, ci permette di conoscere la realtà. Un a priori, come dicevamo, oggettivo (perché infuso da Dio nell’anima umana al momento della sua creazione) e non soggettivo (come quello kantiano).

Si tenga presente che, al tempo di Rosmini, il “tomismo” non esisteva. Le opere dell’Aquinate giacevano, sotto una coltre di polvere, nelle biblioteche. Sarà solo nel 1879 (quindi 24 anni dopo la morte di Rosmini) che il Papa Leone XIII pubblicherà l’enciclica Aeterni Patris “sulla restaurazione nelle scuole cattoliche della filosofia cristiana di San Tommaso d’Aquino”, evento con cui si fa iniziare l’epoca della “neoscolastica”, che caratterizzerà la Chiesa praticamente fino al Vaticano II. Leone XIII risusciterà il tomismo in polemica con il rosminianesimo, che si stava diffondendo nella Chiesa. Ma Rosmini non si era mai posto in contrasto con San Tommaso; al contrario, considerava la propria filosofia come una attualizzazione del tomismo per il proprio tempo. Rosmini può essere considerato l’ultimo rappresentante della philosophia perennis, che aveva avuto in Platone, Aristotele, Agostino e Tommaso i suoi massimi esponenti.

Rosmini era stato osteggiato già durante la sua vita, a partire dal 1841. I suoi maggiori oppositori furono i gesuiti (i barnabiti invece furono fra i suoi piú convinti e ferventi sostenitori, e per questo dovettero subire una dura persecuzione). Nel 1849 furono messe all’indice due sue opere non di carattere filosofico: la Costituzione civile secondo la giustizia sociale e Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, entrambe pubblicate nel 1848. Quest’ultima opera è abbastanza famosa per la sua denuncia dei problemi che affliggevano la Chiesa in quell’epoca. Le “cinque piaghe” sono: la divisione del popolo dal clero nel culto pubblico; l’insufficiente educazione del clero; la disunione tra i Vescovi; la nomina dei Vescovi lasciata al potere temporale; la servitú dei beni ecclesiastici. Si potrà discutere sia sull’analisi delle piaghe, sia sui rimedi proposti; ma si tratta di una critica piú che legittima alla Chiesa del tempo; non vengono in alcun modo toccate questioni di carattere dottrinale, che avrebbero potuto giustificare la messa all’Indice dell’opera. Interessante notare che, per rimediare all’estraniazione dei fedeli dalla liturgia, Rosmini non suggerisce la traduzione dei testi nelle lingue volgari, ma piuttosto l’insegnamento del latino, la spiegazione delle cerimonie e l’uso di messalini. La quarta piaga (cessione della nomina dei Vescovi al potere statale) potrebbe avere oggi imprevisti risvolti di attualità.

Nonostante le opposizioni, Rosmini era sempre stato difeso e sostenuto dai Papi, in particolare Pio IX, che avrebbe addirittura voluto farlo Cardinale, se non fosse stato per le trame di alcuni prelati di Curia. Nel 1851 le opere di Rosmini furono sottoposte all’esame della Congregazione dell’Indice, che nel 1854, col decreto Dimittantur, ne autorizzava la diffusione. Fu solo nel 1887 (32 anni dopo la morte del filosofo) che il Sant’Uffizio condannò, come “non conformi alla verità cattolica”, 40 proposizioni contenute nelle opere, per lo piú postume, di Rosmini (decreto Post obitum: Denzinger-Schönmetzer, nn. 3201-3241). Nel 2001, la Congregazione per la dottrina della fede, allora guidata dal Card. Ratzinger, emanava una Nota sul valore dottrinale dei decreti dottrinali concernenti Rosmini, con la quale si spianava la strada alla sua beatificazione (qui). In essa si affermava:
Si possono attualmente considerare ormai superati i motivi di preoccupazione e di difficoltà dottrinali e prudenziali, che hanno determinato la promulgazione del Decreto Post obitum di condanna delle “Quaranta Proposizioni” tratte dalle opere di Antonio Rosmini. E ciò a motivo del fatto che il senso delle proposizioni, cosí inteso e condannato dal medesimo Decreto, non appartiene in realtà all’autentica posizione di Rosmini, ma a possibili conclusioni della lettura delle sue opere. Resta tuttavia affidata al dibattito teoretico la questione della plausibilità o meno del sistema rosminiano stesso, della sua consistenza speculativa e delle teorie o ipotesi filosofiche e teologiche in esso espresse. 
Nello stesso tempo rimane la validità oggettiva del Decreto Post obitum in rapporto al dettato delle proposizioni condannate, per chi le legge, al di fuori del contesto di pensiero rosminiano, in un’ottica idealista, ontologista e con un significato contrario alla fede e alla dottrina cattolica (n. 7).
La nota della CDF se la cava egregiamente, distinguendo fra il significato originale — ortodosso — delle proposizioni e una loro possibile interpretazione eterodossa, e rinvia, giustamente, al libero dibattito filosofico (in filosofia non esistono dogmi!) una valutazione del sistema rosminiano. Faccio però notare che un’interpretazione eterodossa può essere data di qualsiasi affermazione, anche del Vangelo (tutte le eresie prendono le mosse dalla Rivelazione), senza per questo in alcun modo inficiare la validità di quelle affermazioni. Anche San Tommaso fu condannato (dall’Arcivescovo di Parigi Stefano Tempier nel 1277); eppure ciò non gli ha impedito di diventare successivamente un dottore della Chiesa e, fra i dottori della Chiesa, quello a cui la filosofia e la teologia cattolica avrebbe dovuto ispirarsi! Come ho detto piú volte in questo blog, per me Rosmini era stato donato alla Chiesa perché essa potesse, facendo proprio il suo pensiero, confrontarsi con la modernità. Questa convinzione si fonda su un’affermazione fatta nel 1877 da un mio illustre confratello, il Padre Cesare Tondini de’ Quarenghi (1839-1907):
Le sue opere sono, a mio avviso, un vero tesoro per la Chiesa ... Iddio stesso s’incaricherà di svelare quali fini Egli si proponeva, dotando in tempo la sua Chiesa di una cosí stupenda enciclopedia filosofico-cattolica.
La Chiesa purtroppo non si rese conto del dono che Dio le stava facendo, e preferí far ricorso a una filosofia certamente valida per il tempo in cui era nata, ma inadeguata a far fronte alle esigenze dell’epoca moderna. Abbiamo visto quali sono state le conseguenze di questa miopia: la nascita del modernismo, la necessità di combatterlo non con le idee ma con le censure e, infine, l’attuale resa incondizionata di fronte ai suoi ripetuti assalti. Come scrivevo al termine del mio post precedente, forse siamo ormai fuori tempo massimo per pensare di reimpostare su nuove basi un confronto con la modernità. Ma almeno questa esperienza dovrebbe insegnarci che i doni di Dio, dopo attento discernimento, vanno accolti con umiltà e gratitudine e, soprattutto, con tempestività. Essi vanno accolti al momento giusto: non ci si può illudere che, una volta passato quel momento, si presenterà comunque un’altra occasione. Chiudersi alla grazia di Dio può avere conseguenze incalcolabili. L’incapacità e il rifiuto di riconoscere i doni di Dio possono essere in qualche modo assimilati ai peccati contro lo Spirito Santo. E noi sappiamo che per la bestemmia contro lo Spirito Santo non c’è perdono.
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