martedì 18 aprile 2017

Dottrina vs Discernimento



L’intervista rilasciata da Padre Arturo Sosa, Preposito generale della Compagnia di Gesú, al vaticanista Giuseppe Rusconi (pubblicata su Rossoporpora) ha fatto parlare di sé soprattutto per l’infelice battuta sull’assenza di registratori al tempo di Gesú. Connesse con quell’affermazione, però, Padre Sosa faceva alcune considerazioni sul discernimento, che sono state trascurate dai piú, ma sulle quali mi sembra opportuno soffermarsi, tenuto conto delle conseguenze che esse possono avere nella vita della Chiesa. I termini “discernere” e “discernimento” ricorrono nell’intervista 24 volte. Mi limiterò a riportare qui il passo dove si tratta del rapporto fra dottrina e discernimento:

Vediamo se ho capito bene: se la coscienza, dopo il discernimento del caso, mi dice che una certa azione la posso compiere, lo posso fare senza sentirmi in colpa e con l’approvazione della comunità… posso per esempio fare la Comunione anche se la norma non lo prevede…
La Chiesa si è sviluppata nei secoli, non è un pezzo di cemento armato… è nata, ha imparato, è cambiata… per questo si fanno i concili ecumenici, per cercare di mettere a fuoco gli sviluppi della dottrina. Dottrina è una parola che non mi piace molto, porta con sé l’immagine della durezza della pietra. Invece la realtà umana è molto piú sfumata, non è mai bianca o nera, è in uno sviluppo continuo…
Mi par di capire che per Lei ci sia una priorità della prassi del discernimento sulla dottrina…
Sí, ma la dottrina fa parte del discernimento. Un vero discernimento non può prescindere dalla dottrina…
Però può giungere a conclusioni diverse dalla dottrina… 
Questo sí, perché la dottrina non sostituisce il discernimento e neanche lo Spirito Santo.
Ho scelto questo passaggio dell’intervista perché mi sembra significativo. Esso mette bene a fuoco il nuovo atteggiamento pastorale assunto dalla Chiesa ai nostri giorni: non si rigetta di per sé la dottrina, ma ad essa si preferisce il discernimento. Su tale contrapposizione ci eravamo già soffermati in un precedente post: nel passaggio dalla dottrina al discernimento individuavamo la caratteristica principale della “rivoluzione pastorale” in corso. Le affermazioni di Padre Sosa confermano che avevamo visto giusto e ci dànno l’occasione per fare alcuni ulteriori approfondimenti.

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Innanzi tutto, cerchiamo di capire in che cosa consista realmente la dottrina. “Dottrina” deriva dal latino doctrina, che è il sostantivo del verbo docere (= insegnare); il suo significato originale è pertanto quello di “insegnamento”. Essa ha però assunto progressivamente un significato piú tecnico di “complesso organico di principi teorici fondamentali sui quali è basato un movimento politico, artistico, filosofico, scientifico e sim.” e, piú specificamente, quello di “complesso dei dogmi e dei principi della fede cristiana” (Zingarelli). Da qui si comprende il disagio provato da Padre Sosa nei confronti del termine: «Dottrina è una parola che non mi piace molto, porta con sé l’immagine della durezza della pietra». Padre Sosa non sta dicendo niente di nuovo; esprime una mentalità assai diffusa nella Chiesa odierna, una mentalità alla quale lo stesso Papa Francesco non si sottrae:
È vero che in un certo senso condividere è dire che non ci sono differenze fra noi, che abbiamo la stessa dottrina — sottolineo la parola, parola difficile da capire — ma io mi domando: ma non abbiamo lo stesso Battesimo? (visita alla chiesa luterana di Roma, 15 novembre 2015);
La visione della dottrina della Chiesa come un monolite da difendere senza sfumature è errata (intervista alla Civiltà Cattolica, n. 3918, p. 476; cf Evangelii gaudium, n. 40);
Invece di offrire la forza risanatrice della grazia e la luce del Vangelo, alcuni vogliono “indottrinare” il Vangelo, trasformarlo in “pietre morte da scagliare contro gli altri” (Amoris laetitia, n. 49);
Il nostro insegnamento sul matrimonio e la famiglia non può cessare di ispirarsi e di trasfigurarsi alla luce di questo annuncio di amore e di tenerezza, per non diventare mera difesa di una dottrina fredda e senza vita (ibid., n. 59).
Sinceramente, si fa fatica a comprendere tanta avversione nei confronti della… pietra. La pietra è dura; la pietra è fredda; la pietra è inamovibile e immutabile; mentre la realtà è mutevole, instabile, fluida, in continuo sviluppo; la realtà è sfumata e può difficilmente essere incapsulata in formulette fisse e intangibili. Ma proprio perché la realtà è cosí “liquida”, abbiamo bisogno di qualcosa di stabile su cui fondarci. Come ci ricorda la parabola del vangelo, la casa va costruita sulla roccia, non sulla sabbia (Mt 7:24-27; Lc 6:47-49). E questa roccia è Cristo (1Cor 10:4). È lui la pietra viva, su cui si fonda l’edificio spirituale formato da pietre vive, che siamo noi (1Pt 2:4-5). In questo passo della Prima Petri, l’apostolo cita un versetto del profeta Isaia («Ecco, io pongo in Sion una pietra d’angolo, scelta, preziosa, e chi crede in essa non resterà deluso», 28:16), nel quale la fede è messa in rapporto con la pietra. In ebraico la radice ’mn (da cui il verbo ’aman, “credere”, e la nostra interiezione amen, “veramente”, “è cosí”, “ci credo”) esprime la nozione di stabilità, solidità, fedeltà. “Credere” significa, innanzi tutto, “acquistare saldezza e fermezza” appoggiandosi a qualcuno che è saldo e fermo come una roccia. Gesú — la “pietra” su cui solo si può edificare (1Cor 3:11) — dovendo dare un soprannome a Simone, lo chiama Pietro. Se la Scrittura ci trasmette una concezione tanto positiva della pietra, con quale diritto ci permettiamo di giudicarla negativamente, perché fredda e dura? È corretto citarne esclusivamente l’uso — possibile (perché previsto dalla legge), ma certamente non raccomandato dal vangelo — di strumento per la lapidazione?

Ebbene, se la dottrina svolge nella Chiesa il ruolo di “pietra” su cui si fonda la fede dei cristiani, non vedo che cosa ci sia di male. La fede deve necessariamente far riferimento a qualcosa di solido, fisso, immutabile; essa non può essere in balia dei venti delle ideologie umane o dei mutevoli sentimenti. È vero che alle origini della Chiesa ci furono animate discussioni — spesso delle vere e proprie lotte — sul significato da dare agli insegnamenti di Cristo; ma a poco a poco la Chiesa è riuscita a definire tale significato e a fissarlo in alcune formule, che non possono piú essere modificate, se non si vuole ripiombare in quelle diatribe, che dovrebbero ormai ritenersi definitivamente concluse. Facciamo un esempio: durante la crisi ariana si discusse se Gesú Cristo fosse homoousios (= “della stessa sostanza”) oppure homoiousios (= “di sostanza simile”) al Padre. Una volta chiarito che Cristo è consostanziale al Padre, non ci si può lamentare che homoousios è una formula fissa, che impedisce una legittima dialettica e il pluralismo teologico nella Chiesa; non si può dire che la realtà è piú sfumata, che non è in bianco e nero, ecc. ecc. O Cristo è homoousios o non lo è; non ci sono sfumature che tengano. E se io affermo che Cristo è homoousios non sto scagliando pietre contro chicchessia, sto semplicemente affermando la mia fede nella vera natura di Cristo. Se poi ci sono alcuni che rimangono scandalizzati dalla mia affermazione, è un problema loro, non mio. Oltretutto, previsto dalla Scrittura: «Per quelli che non credono “la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata pietra d’angolo” (Sal 118:22) e “sasso d’inciampo, pietra di scandalo” (Is 8:14). Essi vi inciampano perché non obbediscono alla Parola. A questo erano destinati» (1Pt 2:7-8). Non vedo perché ci si debba meravigliare della possibilità che qualcuno possa rifiutare Cristo; è una eventualità compresa nella libertà umana. Il fatto che qualcuno possa rifiutare Cristo non mi autorizza a cambiare — o, se si vuole, a mettere fra parentesi — la dottrina, solo per non indisporre qualcuno.

È vero dunque che la dottrina è il risultato di una “cristallizzazione”, vale a dire di un processo di chiarificazione, precisazione e definizione delle verità della fede. Ma tale processo non può essere visto in maniera negativa, come una manifestazione di chiusura mentale, fariseismo o legalismo che dir si voglia. È piuttosto da considerarsi come una forma di amore e di venerazione per la parola di Dio. È l’amore che spinge i credenti a cercare di comprendere meglio ciò che Dio ha voluto rivelare loro e, una volta compreso, cercare di fissarlo, custodirlo e tramandarlo cosí com’è, senza mutazioni. Si tratta di un bene troppo prezioso perché possa essere manipolato. Depositum custodi, è il chiaro monito di Paolo a Timoteo: come avrebbe potuto la Chiesa comportarsi diversamente?

Ma le formule fisse, si potrebbe obiettare, possono trasformarsi nella “lettera che uccide”, di cui parla Paolo (2Cor 3:6); la caratteristica della nuova alleanza non è la lettera, ma lo Spirito che dà vita. Ma noi abbiamo la certezza che quel processo di cristallizzazione è avvenuto proprio sotto l’impulso e la guida dello Spirito Santo, e che lo stesso Spirito continuerà a rendere vive quelle formule apparentemente morte.

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Alla dottrina, come dicevamo, oggi si preferisce il discernimento. Di esso ci siamo occupati in un precedente post. Siamo consapevoli dei limiti di quella trattazione, ma finora non siamo riusciti ad approfondire il discorso, come pure avevamo successivamente auspicato (qui). Non c’è dubbio che il discernimento possa vantare nobili ascendenze (le origini neotestamentarie e poi la tradizione ignaziana, a cui tanto Papa Francesco quanto Padre Sosa, per evidenti motivi, si rifanno). Tutto sta a vedere se il discernimento, che ora viene proposto in qualche modo come sostitutivo della dottrina, sia figlio legittimo del discernimento neotestamentario e ignaziano, o se non vada piuttosto considerato come… bastardo.

Oggi, al posto della dottrina — dura come la pietra, fissa, immutabile, fredda e astratta — si vorrebbe il discernimento, perché piú aderente alla realtà, piú malleabile, piú capace di cogliere la presenza e la volontà di Dio nelle molteplici e diversificate situazioni della vita. Padre Sosa descrive cosí la pratica del discernimento: esso «si pone in ascolto dello Spirito Santo, che — come Gesú ha promesso — ci aiuta a capire i segni della presenza di Dio nella storia umana». Ecco, si dà per scontata — lo ha promesso Gesú! — la presenza dello Spirito Santo nel discernimento, dimenticando che si fa discernimento proprio per verificare tale presenza. Si dimentica che, all’origine, il discernimento è discretio spirituum; si dimentica che non esiste solo uno spirito buono (lo Spirito Santo), ma anche uno spirito cattivo; si dimentica che non è facile distinguere la presenza e l’azione dell’uno e dell’altro; e proprio per questo è necessario il discernimento. Ho l’impressione che ci troviamo di fronte a una banalizzazione del discernimento, come se bastasse porsi “in ascolto dello Spirito Santo” (che significa poi concretamente?), quando invece il problema è proprio quello di stabilire se è lo Spirito Santo che mi sta parlando o non piuttosto la voce del Nemico (il quale, come ci ricorda San Paolo, spesso si maschera da angelo di luce, 2Cor 11:14). Un gesuita dovrebbe sapere quanto sia difficile distinguere fra lo Spirito vero e le sue contraffazioni.

Tra le altre cose, Padre Sosa ricorda un aspetto importante:
Il discernimento bisogna farlo insieme, insieme. Il discernimento non è mai solo di una persona: dobbiamo insieme condividere il percorso. Il discernimento è molto impegnativo, non è una parola caricaturale.
Prima che l’individuo, è la Chiesa che fa discernimento. Ed è quello che ha sempre fatto. In fondo, anche la dottrina è frutto di discernimento. Per tornare all’esempio che facevamo, nel decidere che Cristo era homoousios e non homoiousios, la Chiesa ha fatto discernimento; ma lo ha fatto una volta per sempre. Non è che debba continuare a farlo a seconda delle diverse situazioni, come se in qualche caso Cristo possa essere homoousios e in altri casi possa essere homoiousios.

La Chiesa inoltre, come evidenziavo nel post del 29 luglio 2016, non fa discernimento solo attraverso il suo Magistero, ma anche attraverso il sensus fidelium. I fedeli, considerati nel loro complesso, hanno un “sesto senso” infallibile, un “fiuto” spirituale con cui riescono a riconoscere istintivamente lo spirito buono e lo spirito cattivo.

Quello che oggi, nella nuova pastorale, viene spacciato per “discernimento pastorale” a me pare non essere altro che il vecchio “libero esame” luterano camuffato da discernimento ignaziano. Si tratta di un modo come un altro per sdoganare il soggettivismo nella Chiesa cattolica. Mentre finora c’era la dottrina a regolare la vita dei fedeli, un punto di riferimento oggettivo a cui tutti dovevano, volenti o nolenti, adeguarsi, adesso ciascuno è invitato a “discernere”, cioè, praticamente, a decidere autonomamente (per quanto, ufficialmente, “in ascolto dello Spirito”). Non serve, come fa Padre Sosa, ribadire che la dottrina non scompare, dal momento che essa «fa parte del discernimento. Un vero discernimento non può prescindere dalla dottrina», quando poi si ammette che il discernimento può giungere a conclusioni diverse dalla dottrina, in quanto «la dottrina non sostituisce il discernimento e neanche lo Spirito Santo». In tal modo, la dottrina è diventata davvero “lettera morta”, per lasciare spazio esclusivamente a un discernimento incondizionato. Quando invece la dottrina dovrebbe costituire uno dei criteri oggettivi del vero discernimento: indicare quali sono i limiti (oggi va di moda parlare di “paletti”) oltre i quali il discernimento, per essere autentico, non può andare.

Dottrina e discernimento non dovrebbero perciò essere considerati come alternativi tra loro, ma piuttosto come complementari e reciprocamente dipendenti: la dottrina è frutto di discernimento; ma, a sua volta, il discernimento non può mai prescindere dalla dottrina: può sempre e solo svolgersi all’interno di essa. Che poi lo Spirito Santo sia superiore, non c’è dubbio; ma è tale non solo rispetto alla dottrina, ma anche rispetto allo stesso discernimento. Dottrina e discernimento sono due manifestazioni del medesimo Spirito, che non possono in alcun modo trovarsi in conflitto fra loro.
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