giovedì 12 gennaio 2017

A proposito di proselitismo



Domenica scorsa, festa del Battesimo del Signore, Papa Francesco, durante l’Angelus, è tornato sul tema del proselitismo. Dopo aver citato alcuni versetti della prima lettura del giorno (il “primo canto del Servo del Signore”) — «Non griderà, né alzerà il tono … non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta; proclamerà il diritto con verità» (Is 42,2-3) — il Santo Padre ha proseguito:
Ecco lo stile di Gesú, e anche lo stile missionario dei discepoli di Cristo: annunciare il Vangelo con mitezza e fermezza, senza gridare, senza sgridare qualcuno, ma con mitezza e fermezza, senza arroganza o imposizione. La vera missione non è mai proselitismo ma attrazione a Cristo. Ma come? Come si fa questa attrazione a Cristo? Con la propria testimonianza, a partire dalla forte unione con Lui nella preghiera, nell’adorazione e nella carità concreta, che è servizio a Gesú presente nel piú piccolo dei fratelli. A imitazione di Gesú, pastore buono e misericordioso, e animati dalla sua grazia, siamo chiamati a fare della nostra vita una testimonianza gioiosa che illumina il cammino, che porta speranza e amore.

Si tratta di un tema ricorrente nella predicazione di Papa Bergoglio. Fece molto scalpore quando egli toccò l’argomento per la prima volta, nell’intervista rilasciata a Eugenio Scalfari il 1° ottobre 2013 su Repubblica. In quell’occasione ebbe a dire:
Il proselitismo è una solenne sciocchezza, non ha senso. Bisogna conoscersi, ascoltarsi e far crescere la conoscenza del mondo che ci circonda. A me capita che dopo un incontro ho voglia di farne un altro perché nascono nuove idee e si scoprono nuovi bisogni. Questo è importante: conoscersi, ascoltarsi, ampliare la cerchia dei pensieri. Il mondo è percorso da strade che riavvicinano e allontanano, ma l’importante è che portino verso il Bene.
E, poco piú avanti, aggiungeva a proposito dell’attività missionaria della Chiesa:
Le nostre missioni hanno questo scopo: individuare i bisogni materiali e immateriali delle persone e cercare di soddisfarli come possiamo. Lei sa cos’è l’“agape”? … È l’amore per gli altri, come il nostro Signore l’ha predicato. Non è proselitismo, è amore. Amore per il prossimo, lievito che serve al bene comune.
Dopo quell’intervista, Papa Francesco è tornato piú volte sul tema. Tra i numerosi interventi che si potrebbero citare, mi limiterò a ricordare l’intervista rilasciata a Ulf Jonsson in occasione del viaggio apostolico in Svezia (La Civiltà Cattolica, n. 3994, 26 novembre 2016). In quell’intervista il Pontefice ha usato espressioni particolarmente forti (e forse un tantino esagerate):
Un criterio dovremmo averlo molto chiaro in ogni caso: fare proselitismo nel campo ecclesiale è peccato. Benedetto XVI ci ha detto che la Chiesa non cresce per proselitismo, ma per attrazione. Il proselitismo è un atteggiamento peccaminoso. Sarebbe come trasformare la Chiesa in un’organizzazione.
L’affermazione di Benedetto XVI, a cui Papa Bergoglio faceva riferimento nell’intervista (un riferimento divenuto ormai abituale ogniqualvolta parli di proselitismo), si trova nell’omelia della Messa di inaugurazione della V Conferenza generale dell’Episcopato latinoamericano (Aparecida, 13 maggio 2007):
La Chiesa non fa proselitismo. Essa si sviluppa piuttosto per “attrazione”: come Cristo “attira tutti a sé” con la forza del suo amore, culminato nel sacrificio della Croce, cosí la Chiesa compie la sua missione nella misura in cui, associata a Cristo, compie ogni sua opera in conformità spirituale e concreta alla carità del suo Signore.
Parlare di “attrazione”, a proposito dell’attività evangelizzatrice della Chiesa, non era peraltro una novità: già nel 1991, nella lettera pastorale Alzati e va’ a Ninive, la grande città! (può essere scaricata qui), il Card. Carlo Maria Martini aveva elencato sei modi di evangelizzare: per proclamazione, per convocazione, per attrazione, per irradiazione, per contagio, per lievitazione.

Si direbbe che si tratti di un dato ormai definitivamente acquisito: la Chiesa non fa — e non deve fare — proselitismo; la Chiesa è chiamata a evangelizzare, ma non a fare proselitismo (qualcuno però, a mio parere, dovrebbe prima o poi prendersi la briga di spiegare con cura la differenza tra evangelizzazione e proselitismo). Eppure fino a non molti anni fa era pacifico fra i cattolici parlare di proselitismo come di uno dei doveri fondamentali della Chiesa e di ciascun cristiano. Per fare solo un esempio, si pensi al capolavoro di San Josemaría Escrivá de Balaguer, Cammino, pubblicato per la prima volta nel 1934. Ebbene, uno dei suoi 46 capitoli, precisamente il trentottesimo, è dedicato appunto al “Proselitismo” (nn. 790-812). Citerò qui solo due brevissimi punti:
793. Proselitismo. — È il segno certo dell’autentico zelo.
809. Proselitismo. — Chi non ha fame di perpetuare il suo apostolato?
Come si può vedere, una prospettiva diametralmente opposta a quella degli ultimi Pontefici. Forse proprio per questo motivo, gli editori delle opere di Mons. Escrivá hanno sentito il bisogno di inserire una nota chiarificatrice:
Nella Chiesa, il termine “proselitismo” è stato tradizionalmente utilizzato (e in questo senso lo hanno adottato molti autori spirituali, tra i quali anche San Josemaría) come sinonimo di apostolato o di evangelizzazione: un agire caratterizzato, tra l’altro, da un rispetto assoluto per la libertà che nulla ha a che vedere con l’accezione negativa assunta da tale vocabolo negli ultimi anni del XX secolo. Nel solco di questa tradizione, San Josemaría usa qui la parola “proselitismo” nel significato di proposta, invito rivolto a colleghi e amici a condividere la chiamata di Cristo.
Nota quanto mai opportuna, utile a dissipare l’equivoco lessicale su cui si fonda la polemica contro il proselitismo, divenuta di moda nella Chiesa dei nostri giorni.

Vediamo di chiarire i termini della questione. Che cos’è il proselitismo? Il vocabolario on line Treccani ne dà la seguente definizione:
La tendenza a fare proseliti, e l’attività svolta per cercarli e formarli: p. di una religione, di un partito, o dei seguaci di una religione, di un partito, di un’idea.
Come si può vedere, il termine, in italiano, non ha in sé alcun significato peggiorativo; esso si usa, per lo piú, in ambito religioso e politico, campi nei quali risulta assolutamente normale la tendenza a fare proseliti. In inglese, dove esiste anche un verbo proselytize (= “fare proseliti”, “fare proselitismo”), i dizionari registrano anche un uso peggiorativo (disapproving) del termine.

Che cos’è un proselito? Ancora dal citato vocabolario Treccani riprendiamo la seguente spiegazione:
Nell’antica religione ebraica, chi si convertiva dal paganesimo al giudaismo (il termine indicava, in origine, lo straniero dimorante nel territorio d’Israele). In seguito, per estens., il nuovo seguace di una religione, di un’idea, di un partito, di una corrente letteraria, artistica, e sim.: cercare, fare, trovare, acquistare proseliti.
È noto, negli Atti degli Apostoli, il racconto della Pentecoste, nel quale troviamo un elenco dei presenti a Gerusalemme in occasione della festa:
Siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e proseliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio (2:9-11).
Negli Atti degli Apostoli il termine “proseliti”, in genere, sta a indicare i non-Ebrei che si erano aggregati al popolo eletto non soltanto osservando la legge, ma anche accettando la circoncisione (tanto per fare un esempio, era proselito Nicola, uno dei Sette — 6:5). Da essi vanno distinti i “timorati di Dio” (10:2) o “credenti in Dio” (letteralmente, “adoratori [di Dio]” — 13:50; 16:14; 17:4.17; 18:7), i quali, pur essendosi convertiti al giudaismo, a differenza dei proseliti non erano arrivati fino alla circoncisione (tra i timorati di Dio va annoverato il centurione Cornelio).

Il vocabolo greco προσήλυτος (derivato da προς, “verso”, e da ἔρχομαι, “venire”) significava originariamente “sopravvenuto”, “forestiero”; poi era passato a significare “convertito” (al giudaismo). I cristiani ripresero il termine per indicare quanti aderivano alla loro fede; successivamente fu usato per riferirsi ai nuovi adepti di ogni religione, per passare infine a significare quanti abbracciano le idee di una qualsiasi dottrina o partito.

Come diceva la nota chiarificatrice presente in Cammino, la parola “proselitismo” è stata utilizzata dai cristiani per secoli senza problemi, anzi con una accezione positiva. Fare proseliti era considerato un dovere, che trovava il suo fondamento in quello che viene talvolta chiamato il “grande mandato” (Great Commission) di Gesú risorto agli apostoli al termine del vangelo di Matteo: Euntes docete omnes gentes (28:19). È interessante notare che, mentre nella precedente traduzione CEI (1974) si leggeva: «Andate e ammaestrate tutte le nazioni…», nella nuova traduzione (2008) si legge: «Andate e fate discepoli tutti i popoli…». In effetti, il verbo greco μαθητεύω (derivante da μαθητής, “discepolo”), che di solito viene tradotto con “istruire”, “ammaestrare” (nella Volgata è stato appunto reso con docete), ha come suo primo significato “fare discepoli”. Qualcuno sa dirmi la differenza esistente tra “fare discepoli” e… “fare proseliti”?

In tempi recenti il termine “proselitismo” ha progressivamente assunto un senso peggiorativo. Va detto che una connotazione tendenzialmente negativa la si trova già nel Nuovo Testamento, nel contesto delle polemiche di Gesú coi farisei: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, quando lo è divenuto, lo rendete degno della Geenna due volte piú di voi» (Mt 23:15). Il fenomeno della riprovazione odierna del proselitismo sembra però essere sorto nel contesto delle relazioni ecumeniche fra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse. Nell’incontro del 7 dicembre 1987, Papa Giovanni Paolo II e il Patriarca di Costantinopoli Dimitrios I affermarono in una comune dichiarazione: «Noi rigettiamo ogni forma di proselitismo, ogni atteggiamento che sia o potrebbe essere percepito come una mancanza di rispetto». Nel 1993, la Commissione congiunta internazionale per il dialogo teologico fra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, durante la sua settima sessione plenaria tenuta a Balamand (Libano) nei giorni 17-24 giugno sul tema “L’uniatismo, metodo di unione del passato, e la presente ricerca della piena comunione”, pubblicò un documento (conosciuto in genere come Balamand Declaration), nel quale la Chiesa cattolica si impegnava a non fare piú proselitismo fra gli Ortodossi (nn. 22 e 35). Sono note le accuse di proselitismo rivolte dalla Chiesa Ortodossa Russa alla Chiesa cattolica, soprattutto dopo la fine del comunismo e la costituzione di alcune circoscrizioni ecclesiastiche cattoliche sul territorio canonico del Patriarcato di Mosca (2002).

Ovviamente il rifiuto del proselitismo non è solo un fenomeno cristiano, ma è diffuso anche presso altre religioni. Per esempio, nei paesi islamici, anche quando la costituzione riconosce il diritto alla libertà religiosa, in genere la legge proibisce alle altre religioni di esercitare qualsiasi forma di proselitismo, e la conversione di un musulmano a un’altra religione (“apostasia”) è considerata un crimine passibile perfino di pena di morte. In India, un paese da sempre multireligioso e con una secolare tradizione di tolleranza, negli anni recenti sono state approvate, da parte di alcuni stati, leggi anti-conversione tese a impedire il passaggio degli indú al cristianesimo.

Personalmente trovo piuttosto singolare proclamare la libertà religiosa e poi proibire il proselitismo. A me sembra che uno degli elementi essenziali della libertà religiosa sia il diritto, per ogni credo, di cercare nuovi adepti; non si può ridurre la libertà religiosa all’esercizio del culto. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948) afferma al riguardo:
Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti (art. 18).
Ovviamente anche la libertà religiosa, come qualsiasi altro diritto, è soggetta ad alcune limitazioni. La Convenzione internazionale sui diritti civili e politici (adottata nel 1966 ed entrata in vigore nel 1976) menziona le uniche restrizioni ammissibili:
La libertà di manifestare la propria religione o credo può essere soggetta solo alle limitazioni prescritte dalla legge e necessarie per proteggere la sicurezza, l’ordine e la salute pubbliche, o la morale o i diritti fondamentali e le libertà di altri (art. 18, § 3).
A tali limitazioni si possono aggiungere le condizioni previste dal Concilio Vaticano II:
Nel diffondere la fede religiosa e nell’introdurre costumanze si deve sempre evitare ogni modo di procedere in cui ci siano spinte coercitive e sollecitazioni disoneste o meno rette, specialmente nei confronti di persone immature o bisognose. Un tale modo di agire va considerato come abuso del proprio diritto e come lesione del diritto altrui (Dignitatis humanae, n. 4).
Il proselitismo dunque rientra fra i diritti naturali dell’uomo, che non può in alcun modo essere impedito né dalle autorità civili né da quelle religiose. Il problema semmai riguarda le modalità di esercizio: si può far proselitismo in tanti modi diversi. A tale proposito possiamo fare nostre tranquillamente le sei modalità proposte dal Card. Martini (per proclamazione, per convocazione, per attrazione, per irradiazione, per contagio, per lievitazione) e ripudiare qualsiasi forma di coercizione, fisica o morale che sia. E dobbiamo far tesoro anche delle osservazioni fatte da Papa Francesco domenica scorsa a proposito dello “stile di Gesú”.

D’altronde, in una società democratica, quale pretende di essere quella in cui viviamo, nessuno si sognerebbe di impedire la propaganda politica o la pubblicità in ambito commerciale; la libera concorrenza è uno dei principi fondamentali su cui si basa l’attuale sistema economico. Non si vede per quale motivo solo in campo religioso dovrebbe vigere un sistema diverso, nel quale non sia lecito promuovere liberamente il proprio credo e cercare di convincere altri a seguirlo. Ovviamente, come in campo politico, economico e commerciale si esige correttezza e si auspica l’adozione di un codice etico, a maggior ragione in ambito religioso ci si attende il rispetto delle norme morali e delle basilari regole della convivenza civile. A questi criteri di comportamento si potrebbe aggiungere un riguardo speciale verso i fratelli separati, purché esso non violi il diritto di ciascuna Chiesa a presentare sé stessa senza complessi (e senza alcuna detrazione nei confronti delle altre Chiese) e il diritto di ciascun fedele di aderirvi liberamente.

Per concludere, penso che possa essere utile fissare alcuni punti:

1. Il concetto di “proselitismo” non ha in sé alcunché di negativo e di riprovevole: fare proseliti rientra fra i legittimi diritti di qualsiasi religione. Per la Chiesa esso, oltre a essere un diritto, è anche e soprattutto un dovere.

2. Ciò che può essere oggetto di critica sono eventualmente le modalità di esercizio del proselitismo, quando esso viene attuato con metodi non rispettosi della dignità umana. Il fatto che in qualche caso anche la Chiesa abbia potuto far ricorso a metodi discutibili di proselitismo non giustifica il ripudio del proselitismo qua talis.

3. Affermare — come ha fatto Benedetto XVI ad Aparecida e come Papa Francesco non cessa di ripetere — che «la Chiesa non fa proselitismo. Essa si sviluppa piuttosto per “attrazione”» non è logicamente corretto, perché si oppongono due concetti (“proselitismo” e “per attrazione”) che non si escludono a vicenda (può anche darsi, ed è auspicabile, un proselitismo “per attrazione”). L’opposizione andrebbe semmai operata fra le modalità di attuazione del proselitismo (“per attrazione” o “per coercizione”).

4. Si potrebbe liquidare la controversia come una semplice quaestio de nominibus, simile a tante altre avvenute in passato senza alcuna effettiva incidenza sulla realtà. Va riconosciuto che spesso basterebbe intendersi sul significato delle parole che si usano, e molte polemiche cesserebbero di esistere. L’esperienza di questi anni però ci ha insegnato che i cambiamenti lessicali sono spesso l’involucro esterno di ben piú radicali trasformazioni ideologiche. Si pensi, per esempio, all’imposizione del cosiddetto “linguaggio inclusivo” nel mondo anglosassone (grazie al Cielo, ne siamo stati in parte risparmiati), attraverso la quale si è fatta passare impercettibilmente l’ideologia del gender. Tutti sappiamo quanto certo linguaggio “politicamente corretto” rifletta determinate visioni ideologiche della realtà. In ambito ecclesiale, c’è stato chi (Plinio Corrêa de Oliveira) ha messo in evidenza il ruolo del “trasbordo ideologico inavvertito”, operato attraverso alcune “parole talismaniche” in vista di un mutamento radicale della mentalità. Ebbene, non mi sembra affatto da escludere che, anche nel caso del “proselitismo”, si sia operata una graduale variazione di significato per raggiungere un preciso obiettivo ideologico: si è partiti da un deterioramento semantico del termine “proselitismo” (da “segno di autentico zelo” a “sciocchezza”, e ora addirittura a “peccato”) per passare poi alla colpevolizzazione di quanti lo praticano e giungere infine alla inibizione di qualsiasi attività evangelizzatrice della Chiesa. Certamente non è questa l’intenzione degli ultimi Papi, ma forse una maggiore consapevolezza di certi meccanismi occulti e un pizzico in piú di cautela nel fare certe affermazioni non guasterebbero.
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