mercoledì 19 ottobre 2016

Nova et vetera



Nella conferenza stampa tenuta durante il volo di ritorno dall’Azerbaigian (2 ottobre 2016), Papa Francesco ha enunciato i criteri per risolvere i problemi della famiglia in base all’esortazione apostolica Amoris laetitia: «Si risolvono con quattro criteri: accogliere le famiglie ferite, accompagnare, discernere ogni caso e integrare, rifare». E piú avanti, dopo aver riferito il caso del transessuale spagnolo («lui, che era lei, ma è lui»), ha concluso: «Ma ogni caso accoglierlo, accompagnarlo, studiarlo, discernere e integrarlo. Questo è quello che farebbe Gesú oggi». Dal confronto dei due passaggi, appare chiaro che i quattro criteri consistono nell’accoglienza, nell’accompagnamento, nel discernimento e nell’integrazione. Non si tratta certo di novità: Papa Bergoglio, fin dall’inizio del suo pontificato, ha fatto sempre riferimento a tali atteggiamenti come espressioni di quella “conversione pastorale” da lui auspicata nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium (n. 25). Solo che, finora, si era sempre parlato di essi in maniera sparsa, senza metterli in successione come momenti di un unico processo. Per esempio, nell’intervista rilasciata al Padre Spadaro nell’estate del 2013 (La Civiltà Cattolica, n. 3918, pp. 449-477) e nell’Evangelii gaudium (24 novembre 2013) si dava grande spazio ai temi del discernimento e dell’accompagnamento; meno, a quelli dell’accoglienza e dell’integrazione. In Amoris laetitia (19 marzo 2016) troviamo tutti e quattro questi elementi, ma anche qui essi non sono enunciati nella scansione adottata nella conferenza stampa del 2 ottobre. Il capitolo ottavo è intitolato “Accompagnare, discernere e integrare la fragilità”; ma manca il primo elemento (“accogliere”), che pure è ricorrente nello stesso capitolo e nel resto del documento. Si direbbe che si stia a poco a poco definendo una sorta di nuovo metodo pastorale, che si sviluppa nei quattro momenti dell’accoglienza, dell’accompagnamento, del discernimento e dell’integrazione.

Gli osservatori piú attenti avevano colto da tempo la svolta pastorale insita in questi criteri. Guido Vignelli vi ha dedicato il saggio Una rivoluzione pastorale. Sei parole talismaniche nel dibattito sinodale sulla famiglia (Tradizione Famiglia Proprietà, Roma, 2016), nel quale vengono presi in considerazione sei aspetti di tale “rivoluzione”: pastorale, misericordia, ascolto, discernimento, accompagnamento, integrazione. Come si può vedere, gli ultimi tre aspetti corrispondono a tre dei quattro criteri enunciati da Papa Francesco nella citata conferenza stampa e coincidono con quelli contenuti nel titolo del capitolo ottavo di Amoris laetitia (sebbene il saggio sia stato scritto prima della pubblicazione dell’esortazione apostolica). È nota la tesi dell’Autore: ci troviamo di fronte ad alcune parole-chiave (“talismaniche”), che hanno subito uno spostamento di significato per operare quello che Plinio Corrêa de Oliveira chiamava “trasbordo ideologico inavvertito”. Per un approfondimento del tema, rinvio al saggio, facilmente accessibile in rete. Qui mi limiterò a riferire l’interessante definizione di discernimento come “metodo diagnostico delle situazioni pastorali”, quella di accompagnamento come “metodo terapeutico della nuova pastorale” e quella di integrazione come “scopo finale della nuova pastorale”.

Da parte mia, vorrei riprendere la riflessione abbozzata nel post del 26 agosto scorso, dove rilevavo l’assoluta novità e discontinuità, almeno sul piano terminologico e concettuale, di questa nuova pastorale rispetto alla pastorale intesa in senso tradizionale, ed evidenziavo l’urgenza di una fondazione biblica e teologica del nuovo metodo. Nessuno potrà contestare che ci troviamo di fronte a termini e concetti nuovi, che non possono vantare alcun radicamento nella Scrittura e nella tradizione. Tra i quattro, solo il termine “discernimento” (διάκρισις/discretio) ha un’origine biblica; ma ho già fatto notare in un precedente post che esso viene oggi utilizzato con un significato completamente nuovo. “Accoglienza”, “accompagnamento” e “integrazione” sono, a loro volta, termini relativamente moderni: lo Zingarelli fa risalire i verbi “accogliere” («ricevere qualcuno o qualcosa con varia disposizione d’animo») e “accompagnare” («andare con qualcuno in qualche luogo per fargli compagnia, per cortesia, per proteggerlo e sim.») al XIII secolo; “integrare” («inserire una persona o un gruppo in un ambiente o in un contesto, in modo che ne diventi parte organica»), al XV. Ancora piú recente risulta il loro utilizzo in campo sociologico. Per fortuna, le esortazioni apostoliche non vengono piú pubblicate in latino, perché altrimenti i traduttori avrebbero dovuto rompersi la testa per rendere certi concetti: per “accogliere” se la sarebbero potuta facilmente cavare con accipere, excipere o recipere; per “accompagnare” avrebbero potuto usare comitare (o il rispettivo deponente comitari) oppure (pro)sequi o deducere; ma come tradurre “integrare”? Inutile cercare nei dizionari tradizionali (per i quali “integrare” è esclusivamente sinonimo di “completare”; e quindi lo traducono con complere); meglio rivolgersi a un dizionario di “neologismi” come, p. es., il Lexicon recentis Latinitatis (a cura dalla Fondazione “Latinitas”, LEV, 2003), che traduce “integrare”, nel senso moderno del termine, con inserere o, in senso riflessivo (“inserirsi”), con coniungi. Ma non si pensi che le cose vadano meglio con le lingue moderne: talvolta certe espressioni che in una lingua appaiono ovvie, non lo sono poi in un’altra. Tanto per fare un esempio, se si fa un confronto fra il testo italiano e quello inglese, si noterà una qualche incertezza nel rendere in quella lingua il concetto, che a noi sembra scontato, di “accompagnamento pastorale”. Spesso incontriamo il corrispettivo accompaniment (che però l’inglese preferisce riservare a contesti musicali o culinari), ma in qualche caso troviamo il piú comprensibile (e tradizionale) pastoral care (EG 70; AL 222; 293; 299) o altre circonlocuzioni.

Da ciò dovrebbe apparire chiaro che ci troviamo di fronte a espressioni attuali, di moda, suggestive, caratteristiche dell’ecclesialese e del politichese dei nostri giorni, ma che, a mio modesto parere, necessiterebbero di un maggiore approfondimento, prima di essere adottate per formulare un nuovo metodo pastorale. Ricordo che quando studiavo teologia (si parla di circa quarant’anni fa) feci un corso di teologia pastorale sulla direzione spirituale, buona parte del quale verteva sull’opportunità di sostituire il termine “direzione” (colpevole di eccessivo “dirigismo”) con “accompagnamento”. Questo per dire che molto spesso tutto si riduce a una questione di mode (dietro le quali però possono talvolta nascondersi ben determinate visioni ideologiche).

Ma quel che piú preoccupa è che tali espressioni non hanno alcun fondamento biblico. A parte il “discernimento”, ditemi voi dove, nella Scrittura (Antico o Nuovo Testamento che sia), si parla di “accoglienza”, “accompagnamento” o “integrazione”. La giustificazione biblica addotta da Amoris laetitia è la seguente: «È quello che ha fatto Gesù con la samaritana» (n. 294). Personalmente — non so voi — la trovo insufficiente: a me sembra piuttosto una rilettura dell’episodio evangelico alla luce delle nostre categorie mentali attuali. Ancor meno adeguata mi sembra la giustificazione portata da Papa Francesco nella conferenza stampa di cui ci stiamo occupando: «Questo è quello che farebbe Gesú oggi». È un criterio rischioso: non tiene conto del fatto che ciascuno può essersi fatta una sua idea di Gesú e quindi pensare che Gesú oggi farebbe come lui se lo immagina. Un pizzico di fedeltà letterale al Vangelo non guasterebbe: ci impedirebbe di cadere in una lettura soggettiva o ideologica di esso. 

Abbiamo criticato la Chiesa delle origini perché aveva adottato le categorie dell’ellenismo; abbiamo accusato la scolastica di utilizzare concetti filosofici platonici prima e aristotelici poi per elaborare la sua teologia; abbiamo voluto un Concilio che favorisse un ritorno della teologia alla Bibbia e ai Santi Padri; e poi che facciamo? Inventiamo una nuova pastorale imperniata su concetti sociologici tipici della mentalità odierna e ci sentiamo tranquilli solo perché riteniamo che «questo è quello che farebbe Gesú oggi»...

Anticipo l’obiezione che mi si potrebbe fare: non si può ridurre la pastorale a una questione di filologia. Concedo che il linguaggio possa cambiare. Ma allora mi siano permesse alcune considerazioni: a) non lamentiamoci se i cristiani del passato si sono serviti delle categorie che metteva a disposizione la cultura del loro tempo; b) sono convinto che il linguaggio biblico potrebbe, a sua volta, plasmare il nostro linguaggio (come di fatto è avvenuto con l’influsso della Vulgata sulla nostra cultura o della King James Version su quella anglosassone); c) prima di adottare una nuova terminologia, andrebbe sottoposta a un severo “test di compatibilità” con la tradizione.

Ma, a parte le questioni di linguaggio (che pure hanno la loro rilevanza), mi pare che la Scrittura dovrebbe diventare nostro punto di riferimento anche per quanto riguarda i contenuti. Una trentina d’anni fa (luglio 1985) feci un corso di esercizi spirituali a Villa San Giuseppe di Bologna. Li predicava il Padre Albert Vanhoye S.J., ora nonagenario Cardinale di Santa Romana Chiesa. Era stato mio professore — stimatissimo — al Biblico; avevo fatto con lui un corso sulla lettera ai Galati, ma era esperto anche, e soprattutto, dell’epistola agli Ebrei e della prima lettera di Pietro. E proprio su quest’ultimo testo vertevano gli esercizi spirituali. Trattandosi di un corso per sacerdoti, era inevitabile che si dovessero fare dei riferimenti di carattere pastorale. Ciò che mi impressionò fu come Padre Vanhoye fosse capace di trarre tali spunti pastorali esclusivamente dalla Bibbia (nella fattispecie, dalla Prima Petri). Permettetemi di riportare la riflessione che feci in quei giorni:
Un modo diverso di affrontare i problemi pastorali: facendo riferimento alla Sacra Scrittura. Pur credendo tutti fermamente nell’ispirazione della Bibbia, pur essendo convinti che si tratta di parola di Dio, stranamente, di fronte a certi testi pratici, morali, pastorali, ci comportiamo come se non avessero piú nulla da dirci. “Debitori del tempo in cui sono stati scritti”: cosí li liquidiamo in quattro e quattr’otto. E preferiamo affrontare i nostri problemi andando a chiedere aiuto altrove, alle scienze moderne o, peggio, alle ideologie. Col solo inconveniente che, poi, non riusciamo a risolvere nessuno dei nostri problemi. Se invece pensassimo che questi testi hanno ancora qualcosa da dirci, oh, allora forse potremmo sperare nella loro soluzione. Veritas Domini manet in aeternum.
È vero che il mondo cambia, la cultura si trasforma, il linguaggio si evolve, si presentano nuovi problemi. È ovvio che la Chiesa deve adattarsi ai tempi, deve dare delle risposte alle sfide che di volta in volta le vengono lanciate; e, per farlo, deve servirsi di strumenti adeguati; non può continuare a usare i ferri vecchi del passato. Chi mi segue da un po’ di tempo sa che per me la Chiesa ha perso la battaglia col modernismo perché si è intestardita a combatterlo con le armi spuntate della neoscolastica, quando la Provvidenza le aveva messo a disposizione un sistema di pensiero simultaneamente adeguato ai tempi e radicato nella tradizione (il rosminianesimo). Ma proprio questo esempio dimostra che l’aggiornamento, quello vero, non può essere frutto di improvvisazione: non consiste né in una spolverata delle anticaglie del passato né, tanto meno, nell’adozione immediata e acritica di ciò che offre al momento il mercato. È necessario un sapiente discernimento, che permetta di distinguere, fra le cose del passato, quelle tuttora valide e quelle ormai superate e, fra le cose nuove, quelle che possono essere accolte senza problemi e quelle che invece vanno categoricamente rifiutate. È necessario andare avanti, ma rimanendo nel solco della tradizione. In una parola, è necessario diventare come lo scriba del Vangelo, che estrae dal suo tesoro nova et vetera (Mt 13:52). Anche in campo pastorale.
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